#28| Benvenuti a Junkopia
#1 - Fuori dall'Impero, il primo evento è domenica 10 dicembre | Che cos'è un'iperteca? | A proposito di Christian Raimo e dell'invidia della vagina | Sulla street art e il mercimonio delle tragedie
È ufficiale, domenica 10 dicembre inauguriamo Junkopia, una rassegna di dieci eventi che durerà fino al 2 giugno 2024, e che organizziamo negli spazi del Contemporary Cluster, galleria d’arte contemporanea insediata a Palazzo Brancaccio (Via Merulana 248, Roma). #1 FUORI DALL’IMPERO è il primo evento, un’introduzione generale in cui parleremo del nostro anno passato fuori dal mondo della cultura e dell’editoria, della distribuzione e delle librerie di catena, fuori dal mondo del visibile.
Perché Junkopia? Il nome viene da un cortometraggio alienante di Chris Marker. Il regista francese ritrae una spiaggia abbandonata su cui degli artisti hanno realizzato delle opere d’arte con i rifiuti portati a riva dalla corrente. Questo riassemblaggio onirico di detriti, in controluce, sembra mostrare i sogni e le ossessioni della società che li ha scartati. Ci piaceva quest’immagine, perché alla fine, in quest’anno anomalo, abbiamo fatto questo, abbiamo rimestato nelle scorie della cultura ufficiale e con quelle abbiamo cercato di far vedere le contraddizioni, i tic, i tabù, i divieti della società dello spettacolo e di una cultura ridotta a spettacolo, spettacolarizzata, dove la parola non ha più peso né senso, dove tutto è permesso, ma niente è davvero possibile.
Durante l’incontro proietteremo anche la prima IPERTECA, un esperimento poetico-visivo, o un video-saggio-post-poetico, o una breve allucinazione immaginifico-verbale, qualcosa di sicuramente non ben definito. Ma qualcosa.
Ecco il teaser. Il testo è a cura di Gog, la voce ce l’ha prestata Tommaso Ragno, le immagini sono di Andrej Chinappi, tra l’altro noto alle cronache come direttore del Bestiario (se avete sottoscritto un abbonamento e non vi è mai arrivato, potete recarvi a Junkopia anche solo per reclamare ciò che vi spetta).
Ritorniamo sul tema del femminismo con un consiglio non richiesto: le femministe si liberino il prima possibile della propria élite femminista e di Christian Raimo
Christian Raimo è il peggior nemico del femminismo. Checché ne pensi il prof. con tutta la sua buona volontà, quella faccia seriosa ma paffutamente accogliente, le lezioni ispirate al liceo, la sua ubiquità ai cortei di NUDM, Raimo rimane uno dei tanti bolscevichi del femminismo, dei professionisti della rivoluzione. Il suo caso specifico, suo malgrado, sconta il limite ontologico di avere un pene. Kevin, l’unico modo che hai per non essere ridicolo nelle tue dichiarazioni, quando lamenti l’assenza di donne filosofe nei libri di testo che usi per i tuoi corsi al liceo, è quello di tagliarti il pisello e riporlo in una teca, in bella vista, sulla cattedra. Tutto il resto è retorica. Nei soviet femministi la tua parola – per quanto posata, colta e sagace – varrà sempre meno di quella di una donna, anche la più irruente e sgrammaticata, ed è bene che sia così. Non vale lo stesso per le Cortellesi, le Murgie, le Schlein, le Gruber e soprattutto per le tantissime influencer che, con malizia e calcolo, ma anche con una sacrosanta dose di ingenuità, gettano in pasto allo spettacolo il femminismo, introducendolo nel dibattito e consegnandolo alla storia.
Forse non se ne rendono conto, abbagliate dagli schermi e dai riflettori, ma la donna è oggi l’equivalente, almeno nell’immaginario collettivo, di quello che era il proletario fino a 50 anni fa. La donna per il femminismo è ciò che il proletario era per la classe intellettuale, politica e sindacale di un tempo. Certo il proletario poteva essere definito e individuato, aveva una classe di appartenenza, era l’oppresso lavoratore che aliena la sua forza lavoro perché escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione. Ma non è questa la sua caratteristica saliente, il proletario aveva anche delle caratteristiche mistico-escatologiche. Poiché oppresso dal capitale e dai padroni era legittimato alla rivolta, anche violenta, al fine di prendere in mano il potere e la proprietà e distribuire entrambi universalmente, estirpando alla radice la possibilità stessa dell’oppressione e dell’alienazione.
L’élite culturale, politica e sindacale del tempo, per timore dell’ingovernabilità di questa rivolta, se ne è messa a capo, dirigendola, facendosene portavoce, conducendola al compromesso con il capitale. Il proletariato del passato è stato superato non dalla rivoluzione (con annessa messa a morte dei padroni), ma con la proletarizzazione universale. Da che il proletario era il referente vuoto e puro, l’uomo futuro del mondo libero e del paradiso in terra, la propaganda sindacale, la lotta politica e la critica intellettuale della sua condizione lo hanno schiacciato sulle sue caratteristiche pietistiche. Il proletario è diventato l’umano inerme, bisognoso di guida, consiglio e assistenza sociale, incapace di darsi una prospettiva rivoluzionaria e men che meno di badare alla propria autosufficienza. Così, con estremo cinismo, si è dato al proletario con una mano quel che con l’altra gli veniva sottratto. La condizione deplorevole di indigenza in cui era costretto a vivere è stata elevata a una dignità posticcia, tale per cui le umili origini sono oggi diventate motivo di vanto, mentre la ricchezza, lungi dal fornire qualche sorta di privilegio, abbrutisce nell’opulenza. Al tempo stesso veniva meno qualsiasi qualità pura che si poteva associare al proletariato, che ridotto ad ennesimo strumento retorico di legittimazione perdeva ogni sincera velleità rivoluzionaria.
La donna per il femminismo è oggi a un bivio simile. Identificabile per genere, e non per classe, gode di una compattezza invidiabile. Unite nel rifiuto di una violenza e di un’oppressione che chiama in causa il mondo intero (il patriarcato che dominerebbe universalmente le relazioni del mondo occidentale), le donne oggi conservano nel segreto della loro carne un principio di violenza rivoluzionaria, per sua natura pericoloso e ingestibile. E qui entrano in gioco le femministe di professione, le sindacaliste delle donne. Il ruolo che le femministe-attiviste, le politiche le giornaliste hanno deciso di ritagliarsi all’interno di questa lotta le esclude dal loro stesso genere. Non sono più donne, infatti, le donne che professano in rete o nei libri o nei film cosa sia il femminismo, che lo riducono alla loro visione preconcetta e opportunistica del reale; o almeno lo sono tanto quanto un intellettuale di sinistra o un sindacalista, fino a qualche decennio fa, potevano essere definiti dei proletari. Sicuramente non diventano per questo degli uomini, che in questa metafora approssimativa rappresenterebbero il nemico, il padrone rispetto al proletario. Ma pare evidente che hanno rinunciato, salendo sul palco e prendendo in mano i microfoni, a prendere parte alla lotta delle donne, mettendosene a capo. Una sorte simile a quella del proletario, perciò, attende oggi la donna. E come la donna, così ogni coacervo di esistenze insofferenti, qualora giunga chi pretende di dare forma e contenuto a questa insofferenza, di dirigerla verso uno scopo, sia anche il più lodevole. Lo si è visto in questi giorni. Lo slogan più puro espresso dai cortei, scioccati dalla morte di Giulia Cecchettin, è stato estrapolato dalle parole della sorella: Bruciate tutto. Rivendicazione inopinabile, formula che vomita sul mondo, su tutto il mondo, il peso dei secoli di un’oppressione che si è giustificata, fino ad ora, solo sulla base della prevaricazione fisica, e che ancora oggi, sottointesa in molte delle relazioni tra uomo e donna, si riversa con ferocia sul corpo delle donne. È una rivendicazione, quella a bruciare tutto, indeterminata ma concreta, come ogni gesto puro, come ogni atto, tanto più quello rivoluzionario, che trascina con sé conseguenze imprevedibili e mette da parte i se e i ma su cui si arresta ogni volontà. Ma basta spaccare la vetrina di un pro-vita a via Labicana per vedere dove crolla la retorica delle femministe di mestiere, costrette a prendere le distanze da ogni violenza concreta (che non saprebbero come governare o influenzare). Nei giorni a seguire, non volendo rinunciare alla forza compattante di quello slogan, di quel Bruciate tutto, sono proliferate interpretazioni di compromesso, meno radicali, in chiave privata, individuale, tutto sommato concilianti. È stato il primo giorno della fine del movimento femminista.
Se le donne continueranno a prestare ascolto a chi donna non è, ma capopartito o intellettuale di regime, finirà come per il proletariato. Essere femminista diverrà un semplice requisito di base per darsi credibilità e il divenire-donna, con tutto il suo carico rivoluzionario e generativo, sarà semplicemente appiattito, ancora una volta, sulle sue caratteristiche pietistiche. Essere donna vorrà dire essere oppressa e riuscire a dimostrare di aver subito un abuso avrà lo stesso valore che ha oggi rivendicare le proprie umili origini. A godere dei benefici del femminismo sarà solo la nuova élite femminista, nata dai salotti e dalle pagine di cronaca, non coinvolta nella lotta, impegnata in una costante campagna di sensibilizzazione acritica - dagli effetti controproducenti -; poiché il giorno che verranno meno l’emergenza e la crisi, verrà meno, con ciò, la legittimità del privilegio di questa nascente élite.
Improvvisamente fioccano i murales. Dove c’è una tragedia, non si fa neanche in tempo a piangere o a capire davvero cosa sia successo che già c’è il murale a fare il riassunto, a dire in che modo bisogna piangere, a imporre le modalità di versamento delle lacrime. Abbiamo chiesto a Vincenzo Profeta, già autore di B.R. ammazzate Banksy, di scriverci due righe sulla questione. Le ha scritte malissimo, su un cellulare mezzo rotto, probabilmente, ma sono bellissime.
Ci vorrebbe proprio un murale sul femminicidio! Non si fa in tempo a chiederlo ai nostri artisti, che subito ne compare uno a Milano, giubbotto rosso con Giulia in mezzo, ed uno a Palermo (vestiti rossi di Giulia senza Giulia). Che splendida liturgia retorica, con termini come Tossico che vanno tossicamente di moda, che creatività visionaria, che sonora propaganda civile, in attesa dell' affettività di stato, l’omicidio di Giulia accende la luce di molti "creativi," e persino Elena sua sorella sembra venire da quel mondo "creativo" lì, un mondo in subbuglio pieno di slogan "creativi" inventati da "creativi," come noi, slogan facili che sanno chi è il cattivo. Elena non è come i soliti parenti delle vittime di cronaca nera disperati ed arrabbiati, è "creativa" pure lei, un pò Dark si veste street, la sua felpa non era un inno al satanismo come voleva l’estrema destra, ma il simbolo di un noto marchio di skate, e lancia dai suoi social la definitiva offensiva al patriarcato, perché Elena, al contrario degli altri familiari delle vittime, spaesati, sa a memoria cos’è il patriarcato - ci vorrebbe un libro direste voi, anzi il libro già c'è, perché pure la nonna di Giulia sa cosa è il patriarcato, infatti pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere ha presentato il suo libro di fronte alle telecamere dei tg di tutta Italia. «Emma è una ragazza del Sud», si intitola, e parla di una donna vittima della società patriarcale. Il trend che crea la realtà. Ora ci vuole un film sul femminicidio, un album sul femminicidio, un femminicidio sul femminicidio, presto "Giulia" lo spettacolo teatrale, il musical sul patriarcato... Che il nemico fossero certi "creativi" talenti in cerca di vittime Br ammazzate Banksy lo aveva capito da tempo.
Bisogna abbandonare la street art, e tornare all' arte urbana, naïf, casuale, qualunquista, improvvisata, imprevista. Abbandonare il progetto, l’idea, le buone intenzioni. L'unico brandello di arte ormai sta nel bordello fuori da qui, qualcuno osservi queste parole, le faccia diventare visione, l'unico brandello di arte è offline oggi, e vive nel caos, l'arte totale è offline, non so se c'è ancora bellezza in questa vita ormai marziana, ma c'è vita e pittura ancora per noi soli che amiamo macchiare la tela, l'arte l’abbiamo dimenticata nel 1350 come dice Zeri, si fottessero i concettuali concettualosi dallo scafato marketing aziendale milanese, sapessero bene che l'arte sta nell'occasionale situazionismo di un barbone che lascia le sue cose per strada, l'occhio lucido vitreo di un uomo situazionista e affranto che muore d'inedia e di povertà, che dispone cose in una maniera esoterica, estetica, coloristica, a modo suo religiosa. Occasionalismo occidentale al sud del sud dei santi, vera, unica mistica dell'occidente mediterraneo, umano che attraversa continenti, ripopola fantasie selvagge, nazioni, vezzo d'autorappresentazione, narcisismo, l'arte è opportunista dell'opportunità si presta ai giochetti di parole facili, sinestetici, autodafè pubblico. L'unico brandello di libertà "artistica" (lasciatemela usare questa detestabile espressione) sta ancora nella pittura, l'unica materia che si può ancora astenere dall'individuo, dall'intenzionale, dalla notizia, dall'automatico pilotato, dall'ipnosi collettiva dell'opinione. Ecco perché l’IA si è messa a dipingere e noi continuiamo a lavorare, perché siamo noi le macchine adesso.
Geminga è collana nascosta, carbonara, sotterranea: è lo scantinato della cultura. E i suoi abbonati sono la comunità clandestina di lettori più grande d’Italia. Stanchi di un’offerta editoriale che sforna 70mila libri l’anno, 600 libri al giorno, loro sanno che ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si rifarà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole, perciò hanno deciso di fare questo salto nel sottosuolo. Non cercano il libro attuale, il libro confetto, il libro bomboniera, il libro tisana, il libro serie tv. Cercano il libro come estensione del dominio della lotta. Per partecipare a questa lotta, abbiamo stilato sette regole.
Non fotografare mai i libri di Geminga [non mostrare, non spoilerare, non profanare. Geminga è un tempio, non un museo]
Non parlare mai di Geminga [al massimo accenna, sottintendi, alludi, indica, ma non spiegare]
Non esporre i libri di Geminga sul tavolo in salotto. [Occultali].
Quando leggi Geminga, leggi e basta [Non siamo esseri multitasking come amano farci credere (per assumere meno personale possibile)]
Se hai da ridire sulla spedizione, puoi farlo, e ti daremo ragione. [Ci siamo affidati alle Poste Italiane, il che equivale ad affidarsi a un’entità soprannaturale, un dio ambiguo, che decide il nostro destino su basi puramente arbitrarie. Geminga del resto è collana che si fonda sull’imprevisto, e non poteva trovare spedizioniere migliore di quello postale a conferma della sua vocazione].
La maggior parte dei libri di Geminga sono pubblicati illegalmente, senza diritti, quindi non denunciarci alle autorità. Sappiamo dove abiti.
Se non sei abbonato a Geminga, abbonati.
«Ciascuna opera d’arte risponde a una domanda che non la precede»
Nicolás Gómez Dávila, Escolios
Sul limite ontologico determinato dal possesso del pene siete rimasti un pochino indietro, perché nel dibattito pubblico la donna è stata espropriata del suo specifico ontologico. Ed è avvenuto con l'assenso del femminismo militante.
Cos'è una donna, esserlo veritativamente?
Ti diranno anche loro, le femministe, che non coincide più con la definizione di "essere umano adulto di sesso femminile", cosicché Raimo può esserlo, pene e tutto.
E anche tu, io, Vladimiro e il Presidente del CSM. Se ci va, se lo affermiamo e lo vogliamo.
Con Tarsky potrermmo rispolverare le basi del realismo epistemologico: "X è una donna solo ed esclusivamente se X è una donna" e non per la verosimiglianza del suo apparire donna, né per ciò che X sente o decide. E neppure per il consenso della comunità sulle sue statuizioni e volizioni.
Ma Tarsky dialogava con Popper e sono entrambi piuttosto morti. Sicché non possono scolpire enunciati a La7. Dal che ulteriormente discende che non esistono, e in qualche misura (crescente) non sono mai esistiti. Sono proiettati verso il traguardo della retrodisesistenza, come l'intera cultura e tradizione occidentale, e il nostro essere uomini e donne.
Quidni, sì. Avete fatto centro, la donna è in corso di superamento, e si affaccia alla parabola nullificante che ha evaporato il proletario come soggetto specifico.
Solo che è molto peggio di quanto avete detto.
ciao.
M.