Ora bisogna fare silenzio. Chi ce l’ha metta il vestito buono. Tiriamoci a lucido. Gli uomini si radano la barba. Le donne si facciano belle, come fosse domenica. Rassettiamo le nostre inquietudini: fuori il sole lambisce lo zenit e un vento d’estate soffia sui nostri cattivi pensieri. È un giorno buono per fare visita a un tempio, dove si svolge una messa antica. O forse è uno stadio, dove si gioca una partita infinita. Quella della parola che aspira all’assoluto, che è come dire Dio, che è come dire goal. Stiamo parlando dell’opera di Nicolás Gómez Dávila. Chi lo conosce si è già messo in ginocchio. Chi non ha idea di chi sia sta pensando oddddio che palle ma chi è mo’ questo con 3 cognomi, ’sti colombiani, Pablo Escobar, bella la serie vado su Netflix. Fermi lì. Leggere l’opera di Gómez Dávila, un mandala di aforismi, vuol dire partecipare a una funzione religiosa. Ogni aforisma, infatti, ha la grazia e la gravità di una formula dossologica, eppure, allo stesso tempo, ha uno slancio poetico, lo stesso che avrebbe, appunto, un goal - per valersi di un paragone caro al Paseula - che è “sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità”. Il goal si ripete sempre diverso nel campo dell’identico. La scrittura gomezdaviliana ha la stessa morfologia del gioco: è una liturgia che stupisce. Che poi è questa la morfologia di Dio, il modo assurdo in cui egli si rivela a noi o in cui noi lo invochiamo: sono mantra, nenie, preghiere, rosari, lodi, inni. Ripetizioni intransigenti dell’identico - per scovare l’Altro. E così, pure, è il calcio: regno della regola e del regolamento, che però trova la sua ragion d’essere nell’imprevisto, nell’imprevedibilità di ogni azione e di ogni conclusione. Senza la norma non c’è meraviglia. È questo il mistero di ogni estasi, che sboccia sempre nel perimetro sconvolto da un’infrazione.
Biografia inutile. Lesse, scrisse, morì. Così chiosò la propria esistenza, come una nota a margine scritta in caratteri minuti. Lapidaria e concisa come uno dei suoi scolii. Impossibile redigere una canonica biografia. La vita di Nicolás Gómez Dávila è piatta e priva di note di colore se la valutiamo con criteri storiografici, come se si fosse svolta tutta interiormente. L’agiata infanzia bogotana, la giovinezza parigina – ebbra di cultura europea –, il ritorno, da ventitreenne, alla città natia, quindi la fondazione della propria biblioteca personale – trentamila volumi al centro di Bogotà. Di salute cagionevole, riceve un’istruzione casalinga e non frequenta l’università. Rifiuta ogni incarico istituzionale e rifugge come la peste qualsiasi forma di attivismo politico. Al ministero preferisce il monastero – benedettino, presso il quale apprende le lingue classiche. Disinteressato a titoli e ruoli, non pubblicizza mai i suoi scritti, dardi infuocati su progresso e democrazia. Il matrimonio come unico evento di rilievo della sua vita privata, muore, fra le spire di patologie cardiache, a ottantun anni, seppellito per sempre dalle proprie opere.
Ma che c’entrano Dio e il calcio con Gómez Dávila? Non lo sappiamo, eppure a leggere i suoi aforismi ci sentiamo come in una Chiesa o in uno Stadio, lo dicevamo sopra, partecipi di un rituale che ci lascia attoniti: quello di una tradizione che perennemente ci spiazza, di un principio che ci pareva scontato e obsoleto ma che il fraseggio gomezdaviliano trasforma in una rete impossibile. Quando apriamo i suoi libri e decidiamo di leggere qualche aforisma a casaccio, ci ritroviamo 3 ore dopo incollati a quelle pagine, rischiando di mandare all’aria matrimoni e appuntamenti. Questo filosofo colombiano - reazionario, anti-democratico, impresentabile alla tavola progressista, inviso alla contemporaneità - è stato definito da qualcuno il Nietzsche sudamericano, da qualcun altro un Cioran battezzato. Per noi l’opera di Gómez Dávila è innanzitutto un luogo, meglio una patria, di più un posto delle fragole, una festa dell’intelligenza, dove tutto è irrorato di una luce meridiana, e a cui torniamo nei momenti più bui e sconsolati, trascinati dalla risacca delle cose senza tempo.
In occasione dell'imminente ripubblicazione delle Notas, prima opera aforistica di Gómez Dávila, che precede di qualche anno gli Escolios, dove il filosofo è più loquace, meno asciutto e lapidario rispetto alla sua opera magistrale, lasciandosi andare anche a lunghe considerazioni, vi lasciamo qui una manciata di aforismi tratti da questo testo, come campane che suonano a festa, prima della funzione.
Ogni libro deve avere per noi il volto indeterminato di un destino e ogni lettura deve lasciarci più ricchi o più poveri, più allegri o più tristi, più sicuri o più incerti, ma mai intatti. Ogni libro che non trovi la nostra carne segreta, nuda, irritata e cruenta è un mero rifugio transitorio.
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Il mio essere si compie solo nella rigida vetta dell’idea o nella bassa e soffocante valle dell’erotismo.
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Non ho voluto viaggiare, perché davanti a qualsiasi paesaggio che mi commuove il mio cuore si dilania per non poter dimorarvi eternamente.
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Le perversioni sono diventate parchi suburbani frequentati con familiarità da moltitudini domenicali.
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Dobbiamo riporre tutta la nostra speranza nell’ingiustizia di Dio.
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Ogni città è un’ipotesi che l’intelligenza instaura intorno a una strada.
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Conviene tagliare all’idea le sue radici verbali: tutta la materia sporca che la lega al suolo. Che la frase esploda come un fiore e dimentichi di aver richiesto una fitta penombra di radici e di steli.
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Ogni pensiero politico è frutto di minoranze oppresse.
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Il comunismo, per i dirigenti del partito e per i suoi teorici, è una lotta contro la proprietà, ma per le masse è una lotta per la proprietà.
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La verità è un errore che dura.
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Nulla mi ripugna tanto come quell’atmosfera tiepida di sessualità soddisfatta che esala da una coppia matrimoniale.
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L’intelligenza è una patria.
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Ogni vizio è una virtù disordinata.
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Un corpo voluttuoso si veste dello splendore dei desideri che risveglia.
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Essere sinceri in ogni istante della nostra vita può pericolosamente significare l’insincerità della nostra stessa vita.
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La sincerità può essere, soltanto, la più comoda maniera di violare solenni compromessi.
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Il popolo è sempre vile; però non dimentichiamo che coloro che si credono meno popolo, generalmente lo sono di più.
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Non sussiste già che una sola classe sociale: la borghesia.
I nobili? Borghesi vergognosi. I proletari?
Candidati esasperati alla borghesia.
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La ricchezza non serve all’uomo moderno se non per moltiplicare la sua volgarità.
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Nelle misure igieniche più che un’efficacia tecnica si cerca un gesto propiziatorio. I microbi sono i demoni della nostra epoca e l’igienista è un mago meno pittoresco e più temibile.
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Viaggiare per l’Europa è come visitare un palazzo dove i domestici ci mostrano le sale vuote in cui vi furono feste meravigliose.
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Nessun uomo è capace dell’egoismo e dell’indifferenza con cui una donna contempla tutto ciò che non ama.
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La bellezza è la prova del fatto che qualcosa è stato creato; l’oggetto brutto è una mera redistribuzione di materia.
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Quando la bellezza si rivela, da qualche parte nasce un dio.
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Come i denti da latte, esistono le idee da latte. A quale età cominciamo a cambiarle?
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L’idea della morte ci opprime e conturba; ma senza la morte, senza la spessa zona di penombra ai bordi della vita, senza quella regione ignota e misteriosa, come sopportare la vita? Come tollerare la ripetizione senza termine delle banalità che conosciamo? Lì, il sogno di vaghe speranze si agita; lì, l’immaginazione assicura il segreto compimento di promesse abolite; lì, l’anelito, forse, sbocca localmente in un eterno e luminoso mattino.
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Il mattino, l’infanzia, i primi splendori della gloria, ah!, se potessimo trattenere i nostri passi davanti alla linea d’ombra dei portici.
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Essere indifferente senza cinismo e appassionato senza entusiasmo.
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La seduzione della giovinezza proviene, prima di tutto, dall’integrità alla quale aspira, dall’ingenua e orgogliosa credenza nella possibilità di eludere la rassegnazione dell’età matura.
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Essere stato innamorato è sufficiente per confutare qualsiasi realismo epistemologico.
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L’importanza di un avvenimento è inversamente proporzionale allo spazio che gli dedicano i giornali.
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La scienza non può fare altro che l’inventario della nostra prigione.
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Così tanti pubblici diversi esistono oggi che qualsiasi libro, per quanto mediocre, trova illetterati da sedurre.
Notizie dal mondo brutto
Torniamo per un attimo nel mondo, il mondo brutto. Sabato è comparsa una recensione del nostro "Instadrama" di C. Palis su Libero con un titolo pacatissimo: Se rapire il figlio dei Ferragnez diventa la trama di un romanzo. Dopo qualche ora Dagospia riprende l'articolo rielaborandolo con i suoi claim trashoni. È tutto giusto, se pensiamo che nel libro "Instadrama" il protagonista ci mostra la rassegna stampa delle testate che parlano del "rapimento del secolo", tra cui proprio Dago. È una specie di incursione della letteratura nella realtà, un imbroglio tra finzione e azione. Entriamo per un attimo in questo metaverso letterario, quell'altro fattone di Nick Land la chiamerebbe iperstizione: "una massa immaginaria funzionante come potenzialità che viaggia nel tempo". Instadrama è una massa informe, una specie di sacco della spazzatura lanciato sul mondo culturale. Speriamo che dentro ci sia una bomba e che tutto esploda. Nel frattempo attendiamo.
Poesie a buffo
Forse la lenta tua malinconia si perde
se nella notte ad un veloce
treno l'affidi.
Sandro Penna