L’altro giorno eravamo al brindisi di compleanno di un amico che lavora, anche lui, nel mondo dell’editoria. Tra i presenti, quindi, altrettanti bazzicavano il mestiere. Prima di rovinare verso l’uscita demoliti dal vino intonando cori da stadio per dissociarci da qualsiasi appartenenza al mondo della cultura, abbiamo intrattenuto una cordiale conversazione di 10 minuti con una ragazza che fa la editor in una piccola ma nota casa editrice romana. Scavalcando le domande di rito e le simulazioni di interesse per pubblicazioni che non leggeremo mai, chiediamo: come fate a sopravvivere? La risposta è la sola che ci interessa per giudicare non il valore della casa editrice, sia chiaro, ma il suo grado di legittimità nel mondo. Alla domanda, la nostra interlocutrice non sbigottisce affatto, anzi ha una risposta che, per come viene formulata, ci sembra radicata in lei, quasi introiettata, come se fosse una cosa del tutto ordinaria. Risponde: beh, un po’ come tutti… bandi, contributi, finanziamenti pubblici. A quel punto quelli sbigottiti siamo noi… ma perché? Come tutti? E i libri, non li vendete? Mah… pochi, ci dice. Poi sai, aggiunge, in casa editrice siamo tutte donne, quindi abbiamo accesso ai fondi per l’imprenditoria femminile. Stupidi noi quindi, ingenui, fessi che non abbiamo la fessa, che non apparteniamo a nessuna categoria protetta o a qualche minoranza rumorosa e iperrappresentata sul piano istituzionale. Ma soprattutto idioti noi che pensiamo ancora che per svolgere il nostro lavoro si debbano vendere i libri, coltivare un pubblico, braccare dei lettori disposti a credere in ciò che facciamo e a darci fiducia. Pensavamo fosse un mestiere come gli altri, in cui c’è un committente da una parte e un prestatore d’opera dall’altra, una domanda e un’offerta. Invece no, l’Italia è un posto meraviglioso dove una marea di case editrici campano senza lettori, stampano libri che ammuffiscono in libreria, intonsi e immacolati. E i giornali ne parlano pure, ché l’editore bazzica i salotti giusti, stringe le mani che contano, ha la rubrica buona. Vendere i libri è secondario quando vinci il bando, quando hai accesso al fondo. Ma i bandi andrebbero banditi, i fondi affondati, gli editori che non hanno il merito di sopravvivere grazie alla forza del loro lavoro e delle loro intuizioni non hanno alcuna legittimità, sono parassiti, mignatte, mignotte. E magari questi signori si atteggiano a liberali, o peggio ribelli, fanno gli anarchici, gli ostinati e contrari, i senza padrone, assumano la posa da engagé, indigné, refusé, ma poi stanno al soldo del ministé, con le mani a ciotola per ricevere qualche spiccio e continuare il carnevale. Magari si lamentano delle tasse, dell’editoria, dei gggiovanniiiii che non leeggono piùùù!!1!, quando semplicemente non leggono i loro libri. Ma la verità è sempre una: chi paga, comanda. È la regola base del potere. Chi ci mette i soldi alla fine controlla, organizza, gestisce, imposta quindi corrompe. Per avere accesso a un contributo pubblico bisogna inevitabilmente adeguarsi ai criteri e ai parametri richiesti dalla megamacchina burocratica, emanazione a sua volta di una visione politica che lo Stato ha del mondo, quindi delle sue priorità ideologiche del momento. Bisogna essere culturalmente in regola per vincere il bando, bisogna valorizzare, riqualificare, promuovere (termini con cui camuffiamo la nostra impotenza) sempre qualcosa, una determinata idea, quindi fare il gioco di qualcuno. Dopo la conversazione con l’editor di cui sopra siamo andati a spizzarci un po’ di questi bandi sull’internet. Ce ne sono a decine ogni anno, indetti soprattutto dalle amministrazioni regionali, ma anche dal MIC e poi dall’Europa. E tra i vincitori di questi bandi troviamo tutte le case editrici più fighette che ci sono in circolazione (qui i vincitori di uno dei tanti bandi della Regione Lazio). Stanno tutte al soldo dello Stato, quindi con buona probabilità non hanno un vero pubblico, simulano di averlo, alle fiere fanno finta che vada tutto bene, che il mercato goda di buona salute e che tutto sia al posto giusto. Ora capiamo perché in Fiera gli unici incazzati siamo noi.
Noi siamo convinti che i buoni libri trovino sempre il loro pubblico, e che l’abilità di un editore sia quella di scovare il proprio, di andarlo a stanare: è una caccia primordiale, come quella che si dichiara a una bestia sacra, un minotauro. È un copro a corpo quotidiano l’editoria, non è mettersi comodi in pantofole a compilare bandi, pdf, fogli Excel e fare business plan di progetti in cui non si crede se non al fine di raccattare qualche spiccio. Bisogna muoversi, correre, ispirare bene con le narici, seguire orme ed escrementi, interpretare gli astri. Non stiamo parlando quindi di adulare il pubblico, di piegarsi alle sue passioni momentanee, ma di piantargli un coltello nelle viscere, dove ci sono le passioni profonde, gli istinti millenari e immutabili. Si tratta anche di deluderlo a volte, di tendergli trappole e tranelli, alle volte di aspettarlo, di fare in modo che sia lui a cacciare noi. Che gusto c’è a lavorare senza un pubblico con cui riprodurre il gioco dell’amore, la caccia eterna? Che gusto c’è a pubblicare libri senza dover fare i conti con le vendite? Pubblicare solo ciò che piace a noi, gonfiando il nostro ego, senza vedere cosa si agita nell’intestino del mondo? Facendo della nostra casa editrice uno specchio? Chi non vende deve chiudere e non chiedere soldi allo Stato: questa è la legge. Non si tratta di liberismo cannibale, di Adam Smith e la sua mano delle seghe invisibili, ma di legittimità. Se un albero cade in una foresta ma nessuno lo vede né lo sente, l’albero è davvero caduto – si chiedeva qualcuno? Se nessuno legge i libri di quell’editore, quell’editore esiste davvero? No, non esiste, è irrilevante, è uno spreco di carta e di alberi. La cultura non va finanziata, non va sostenuta, la cultura è una minaccia (lo dicevamo già nella newsletter dell'altra volta), è lo scandalo di una foresta intera che brucia e noi preferiamo essere odiati, disprezzati, allontanati, tutto, pur di non essere protetti, e tutelati, controllati, perimetrati, pur di rimanere uno scandalo che cammina.
Carmelo Bene contro i finanziamenti alla cultura
Comunque lo si voglia rigirare questo gomitolo spinato, è inconfutabile che qualsiasi interventismo dello Stato nelle Cose “estetiche” (straordinarie o mediocri) non può che denunciarsi inopportuno e mascalzone.
Dico a voi “prodi anselmi” irresponsabili (e tuttavia preposti alla sconsiderata Presidenza del consiglio dei ministri): smettete (o no?) questa intollerabile minaccia assistenziale a ogni costo?... […]
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Il dis-onorevole intervento governativo si sdoppia ufficialmente in due formulette così scempiate: per sovvenzione e contributo. […]
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Si è dunque condannati a subire l’interventaccio statale, scontato a monte il “privilegio” d’una impresa necessariamente passiva (aprioristico, manicomiale, autolesionismo manageriale). […]
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Oh mentecatti! Non è l’ora che il governo, definitivamente cestinata ogni velleità di sovvenzione assassina, chiuda i battenti di quel suo ministero fantasmatico (già abolito da un trascorso referendum plebiscitario) e, fuor delle scartoffie e dei brogliacci, detassando i teatranti collaudati al botteghino (e altrove), si dimetta? Ripeto: si dimetta. Lo ripeto altra volta: si dimetta!
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Sto rompendomi le scatole, credetemi, ma non riesco davvero ad astenermi da un’ultima chiosetta, quasi un P.S.: Che canchero sa questo governo (e non solo questo) dei mis-fatti dell’arte?, visto che non resiste (non resiste) a intromettervisi, a distillare quintessenze paternalistiche, a farneticar di ricette per sanare (esorcismo ch’è abuso di potere!) il luna-park del cinema e teatro, sperperando migliaia di miliardi lire: turbinio deprimente (“via col vento”), presuntuosa arroganza (Stato confusionale) in che il potere s’illude competente?
Quando CB Si presentò armato
negli uffici del Ministero della Cultura
«Rapporti sempre burrascosi tra Carmelo Bene e il ministero, e non solo via fax. 1969: C.B. (dicitur) si presenta armato negli uffici del Ministero dello spettacolo alla Ferratella. Una pistola caricata a salve nel fodero della giacca. È furioso: non gli hanno assegnato il “premio di qualità” per il suo Nostra Signora dei Turchi presentato a Venezia. Confabula con Franco Evangelisti, allora sottosegretario. Da lì si porta al commissariato più vicino, accompagnato dalla sorella Maria Luisa, che gli fa da partner. Bene si autodenuncia: “Commissario, arrestatemi, sto andando ad assassinare il ministro e il direttore generale dello spettacolo” (da allora in poi, gli furono puntualmente assegnati i “Premi di qualità” attinenti i film successivi). Qualche anno dopo, per altre ragioni, replicò il “misfatto”. Si presenta in doppiopetto gessato, versione San Francisco anni ’30, al quinto piano del ministero. Chiede del direttore generale Carmelo Rocca. “È occupato in una riunione”. Bene scarica sul pavimento tutto il caricatore della sua arma, seminando il panico tra le impiegate e bruciacchiando le calze di nylon di una di loro. Dopodiché, si affaccia da Rocca e lo sfila dagli astanti (una riunione sindacale). “So che sei armato Carmelo, potrei denunciarti, lo sai?”. “Fai quello che vuoi, decidi tu”. Il fattaccio fu messo a tacere e mai nessun quotidiano lo pubblicò».
Un aneddoto raccontato da Giancarlo Dotto nella biografia di CB
Per approfondire i rapporti tra Stato e cultura
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Poesie a buffo
Lacrime dalle palpebre, dolori dei dolenti,
dolori che non contano e lacrime incolori.
Non chiede nulla, lui, non è insensibile,
triste nella prigione e triste quand’è libero.
È un tempo tetro, è una notte nera
da non mandare in giro neanche un cieco. I forti
siedono, il potere è in pugno ai deboli,
e in piedi è il re, vicino alla regina assisa.
Sorrisi e sospiri, insulti imputridiscono
nella bocca dei muti e negli occhi dei vili.
Non toccare nulla! Qui brucia, là arde;
codeste mani son per le tasche e le fronti.
Un’ombra…
Tutta la sciagura del mondo
e il mio amore addosso
come una bestia nuda.
Paul Éluard, Senza rancore