#26| La stanchezza dell'Occidente
Siamo stanchi di essere una potenza, incapaci di gestire tutti gli scenari di crisi in cui siamo coinvolti | Paul Verlaine e i barbari bianchi | Rompere i monopoli editoriali è possibile?
Un impero, per essere mantenuto, richiede tributi enormi. Essere una potenza globale oltre ad avere dei benefici, ha anche dei costi. L’Occidente, per mantenere i più grandi arsenali di guerra e di pace al mondo, e quindi il suo status di potenza, investe soldi ed energie. La guerra e la pace sono due “dispositivi” attraverso cui ci assicuriamo il prestigio, la sicurezza, la nostra egemonia a livello planetario. Eppure, questi dispositivi, hanno costi sempre più elevati e tutte le risorse che allochiamo nel loro mantenimento rendono sempre meno. Stiamo assistendo, da qualche anno a questa parte, alla caduta tendenziale del saggio di profitto degli investimenti che l’Occidente stanzia per la propria egemonia. Fare la guerra e quindi portare la pace è diventato controproducente, o comunque non è vantaggioso quanto in passato. L’opinione pubblica, dopo un primo periodo di empatizzazione coatta con quella o quell’altra causa, con quel popolo o quell’altra comunità da difendere, si stanca velocemente, brutalmente. Il grado di assuefazione alla violenza è ormai altissimo, e dopo le prime immagini shock si scrolla alla ricerca di qualche altra informazione che possa distrarci. La guerra russo-ucraina, che pure si svolgeva alle porte dell’Europa, ha di fatto già fiaccato sia l’opinione pubblica che le nostre classi dirigenti. Nel giro di qualche mese l’Occidente sente gravare sulle sue spalle più i costi della propria ingerenza nelle controversie internazionali che non i benefici. È stata proprio Giorgia Meloni, consapevole degli umori diffusi tra la popolazione, a parlare di «stanchezza» dei partner occidentali nel sostegno all’Ucraina, dove si assiste al protrarsi di una situazione di stallo nei territori occupati dai russi, e a vari episodi di corruzione all’interno dello stesso governo di Kiev. E così si spiega l’allentamento del sostegno internazionale a Zelenskyj, accolto a Washington a settembre in un clima molto più teso e molto meno celebrativo rispetto all’anno passato. Secondo un sondaggio Reuters condotto poco dopo la partenza del Capo di Stato ucraino, circa il 41% degli americani vuole che il Congresso fornisca più armi a Kiev, in calo rispetto al 65% di giugno. L’assistenza a Kiev è diventata un punto critico nel dibattito sul bilancio federale, ma anche sul bilancio morale dell’opinione pubblica. Con lo scoppio della guerra in Israele, poi, l’attenzione sull’Ucraina è andata ancora più scemando, e convincere i partner occidentali dell’utilità del sostegno militare diventa sempre più difficile. Tanto che Biden, per far passare al Congresso il piano di aiuti all’Ucraina ha dovuto infilarlo insieme ad altre priorità, compreso il sostegno a Israele e alla sicurezza del confine tra Stati Uniti e Messico, consapevole che altrimenti avrebbe incontrato le resistenze dei repubblicani. «È un investimento intelligente», ha detto il Presidente degli Stati Uniti, «che pagherà i dividendi per la sicurezza americana per generazioni». Lo stesso Zelenskyj ha ammesso di esser stato penalizzato dagli eventi in Medio Oriente, e quando ha chiesto al governo israeliano di far visita a Tel Aviv, nel tentativo di non venire del tutto eclissato dal conflitto con più hashtag al momento, ha visto sbattersi la porta in faccia. In poche parole gli Stati Uniti, quindi l’Occidente, faticano sempre di più a gestire tutti gli scenari di crisi in cui sono coinvolti: chiamati a risolvere una serie di problemi, ne generano di nuovi, stentando così a mantenere il costo della propria potenza ed egemonia planetaria. Da ovunque si respira un clima da «impero alla fine della decadenza, che guarda passare i grandi Barbari bianchi» e a noi non resta che commentare, elaborare discorsi raffinatissimi, fare le analisi più belle, comporre «acrostici indolenti dove danza il languore del sole in uno stile d’oro».
Se nelle librerie di catena ti senti come in un grande magazzino; se sei nauseato dalla vastità della scelta, dall’inutilità della scelta, perché sotto le copertine delle novità è come se ci fosse sempre lo stesso libro, sempre lo stesso enorme ego, travestito da qualcos’altro; se quando compri su Amazon sei consapevole che stai dando soldi a una delle piattaforme che sta rovinando il mondo con la scusa di migliorarlo, solo perché siamo diventati un popolo maniaco del controllo che ha bisogno dei codici di tracking anche per andare in bagno; se senti tutto questo, allora entra in Geminga. 8 libri l’anno, a scatola chiusa, senza sapere titolo, autore, copertina. Scegli, diceva un filosofo, o qualcuno sceglierà per te. Cazzata! Non scegliere, invece, perché tanto la scelta è tra il già visto e il già detto. Perciò affidato al caso, chissà che un imprevisto non trasformi la tua vita in un destino.
Poesia a buffo
Sono l’Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti dove danza
il languore del sole in uno stile d’oro.
Soletta l’anima soffre di noia densa al cuore.
Laggiù, si dice, infuriano lunghe battaglie cruente.
O non potervi, debole e così lento ai propositi,
o non volervi far fiorire un po’ quest’esistenza!
O non potervi, o non volervi un po’ morire!
Ah! Tutto è bevuto! Non ridi più, Batillo?
Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!
Solo, un poema un po’ fatuo che si getta alle fi amme,
solo, uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica,
solo, un tedio d’un non so che attaccato all’anima!
Paul Verlaine,
Languore
Oggi, sul tema editoria e come dichiarare bancarotta con una semplice mossa, riproponiamo un articolo di Andrea Crisanti de Ascentiis, uscito sulla rivista Altri Animali. A differenza delle nostre cupe disamine, qui c’è un velo di ottimismo, l’idea di costruire una rete, di organizzare un altro sistema distributivo. Del resto il prode ragazzo ha appena fondato una casa editrice, si chiama Ago e fa bei libri (ma soprattutto ha il merito di farne pochi). Ancora non sa cosa lo aspetta. Tra un anno gli chiederemo di fare un bilancio. Risponderà con un bestemmione.
Se c’è una speranza
è nel serve and volley
Nel tennis moderno tutti si ricordano di una partita che si è giocata a Wimbledon il 22 giugno 2010 tra John Isner e Nicolas Mahut. 11 ore e 5 minuti di gioco, cinque set distribuiti in tre giorni consecutivi con gli spalti che via via che passavano le ore e i giorni si riempivano fino a strabordare. La partita alla fine la vinse il gigante americano Isner, e Mahut si racconta fosse inconsolabile nelle ore successive al verdetto. Ma il tempo è stato galantuomo e di quella partita, oggi che sono passati quasi quindici anni, nessuno ricorda più il risultato, ma tutti hanno stampata in mente la foto di Isner e Mahut accanto al tabellone che indica le oltre undici ore di gioco.
Nel tennis giocato il risultato è l’unica cosa che conta, specialmente se è la misura per comprendere la validità di sacrifici e alzatacce ogni giorno fino a quando la giovinezza è soltanto un ricordo. E poi esiste il tennis raccontato, quello appunto che si dimentica dei risultati delle partite lunghe undici ore e riporta alla storia le imprese degne di essere ricordate.
Allo stesso modo, oggi, esistono due tipi di editoria: un’editoria di racconto del presente, di iper-narrazione del momento, che piega il libro a logiche temporali sempre più strette, che ha l’unico obiettivo nella vendita e nel fatturato e che cerca di intercettare i bisogni contingenti dei lettori che specialmente in questo momento storico necessitano di rassicurazioni continue. Esistono veri e propri cordoni di salvataggio composti da libri che esplicano perfettamente ciò che si vuol leggere ribadendo le timide convinzioni di una data categoria di lettori senza mai andare loro contro. Proliferano in questo senso migliaia di libri tutti sugli stessi argomenti, ma se si prova a leggere tra le righe, oltre i titoli e le prime informazioni – autore, titolo, editore – si rende chiaro ed evidente che ogni libro non è inutile, – o meglio non è totalmente inutile – perché asseconda una particolare fetta di pubblico. Qualche anno fa andava di moda la Silicon Valley. Di colpo il pubblico radical non sapeva più dove abitasse Steve Jobs, i capitalisti non erano più mega come i direttori di una volta, ma giga per chi voleva fare un po’ il radicale ma rimanere nel salotto. C’è chi ha ripescato paper sul web di pazzi filosofi nerd sulla questione, chi invece ha pubblicato libri prodotti da tecnologie della valley. Tutte declinazioni di una stessa cosa, tutte angolazioni preziosissime ma disperse, frammentate, inconcluse, come il contemporaneo esige: progettini di noi stessi, parzialità, highlights senza partite.
Il motivo per cui questo tipo di editoria sta andando in malora non è tanto relativo alla qualità dei libri che certo in questo torchio che non concede pause agli autori faticano a uscirne di buoni, ma il fatto che i grandi editori monopolizzano gli spazi nelle grandi librerie, che tendenzialmente posseggono, fino a rendere evidenti due derive: da una parte una omologazione della proposta monogruppo; dall’altra, per quei lettori che non comprano se non soddisfatti e totalmente rassicurati, la fuga verso i negozi online. Si instaura così un modello di autarchia editoriale che sicuramente non va incontro alle necessità dei libri e dei lettori ma forse rimpolpa i fatturati di pochi a discapito della stragrande maggioranza. La domanda è: quanto può durare questo sistema? Non tanto, ormai è abbastanza chiaro, le Feltrinelli chiudono, incapaci di sostenere i costi di gestione e le grandi distribuzioni accumulano ritardi infiniti fino a far virare gli editori verso proposte distributive forse meno solide dal punto di vista economico ma sicuramente più efficienti e malleabili.
Il secondo tipo di editoria è l’editoria che guarda alle undici ore e non al risultato. Questo non sta a significare che editori che intraprendono questa strada non siano accorti nel vedere i numeri che fanno e cercare di migliorarli sempre – parliamo di editori, non di mecenati. Ma se nel primo caso ingrassare il maiale è il primo obiettivo, nel secondo si cerca di arrivare al risultato passando da un’altra strada, quella della qualità, della necessità del libro, puntando su chi, e in Italia è pieno, non ha più voglia di ascoltare le solite sirene e si rifugia in un tipo di libro più difficile forse, meno immediato e accomodante, ma che alle risposte preferisce lasciare le domande, alla costruzione di castelli perfetti di modelli postideologici a uso quotidiano preferisce le ceneri da cui provare a rinascere. Questo non significa che i cataloghi degli indipendenti siano tutti perfetti, si trovano titoli particolari anche sotto i pastelli più armoniosi, ma se sono strumentali alla pubblicazione di altri libri di qualità, migliori, che faticano in libreria e che quindi non sostengono un bilancio, sono di gran lunga più comprensibili.
Ma se in Italia fatichiamo a capire questo modo di pensare, all’estero sono invece in molti casi avanti nella gestione dei propri autori relativamente alla pubblicazione negli altri Stati. In questo senso è necessario guardare ad alcuni casi importanti. Il più evidente è quello del premio Nobel Annie Ernaux, – in patria pubblicata da Gallimard, di cui non serve certo rimarcare l’importanza – che, in tempi meno blasonati, ha deciso di interrompere le pubblicazioni con Rizzoli, primo editore italiano dell’autrice de Il posto e Gli anni, ma di cederla alL’orma, casa editrice indipendente che ha fatto della ricerca e della qualità del suo catalogo la cifra distintiva nel panorama editoriale. In questo all’estero sono avanti anni luce perché favoriscono i cataloghi degli indipendenti rinunciando talvolta (non sempre) ad anticipi stellari in virtù della rassicurazione sul corso vitale di un libro, che non si esaurisca quindi nell’arco di una settimana come da prassi dei grandi editori, ma che si innesti in un catalogo che quel titolo lo terrà sempre vivo. In Italia i lettori forti acquistano singolarmente più libri di qualsiasi altro lettore occasionale: le statistiche dicono che chi legge, legge molto, ma chi non legge fatica a finire un libro all’anno. Potenzialmente, quindi, per i grandi editori sarebbe più facile puntare su un modello di proposta qualitativamente alto senza dover incorrere in pubblicazioni veramente difficili da comprendere e mandare giù. Ma non è possibile, e non è possibile perché sempre i dati ci raccontano di un mercato dei lettori forti completamente immobile, uguale a sé stesso, il dato economico resta ancora una discriminante molto importante tra lettori forti e non lettori. Ed è la fotografia di un Occidente in cui la ricchezza, e quindi purtroppo la cultura, appartiene a un numero sempre minore di persone, mentre per la maggioranza che patisce le oscillazioni dei prezzi questo discorso può soltanto degenerare in una divaricazione ancora più accentuata di disuguaglianza. Nell’ambito editoriale questo processo tende verso la formazione di una élite sempre più esclusiva, molto colta o presunta tale, che guarda alla massa, il più delle volte con uno sguardo insopportabile, non come qualcosa da inglobare e includere ma come a qualcosa di estraneo, da escludere per non dover cominciare a porsi delle domande sull’oggetto libro e sulla sua accessibilità. I grandi gruppi editoriali non possono permettersi di non essere inclusivi verso questa maggioranza di popolazione e le vanno incontro nel modo più scontato e nocivo sul lungo periodo, ovvero abbassando il livello generale della proposta.
Tutt’altra storia per gli editori indipendenti e di catalogo, che ormai pubblicano per chi lavora con i libri o comunque vive e lavora nella bolla del mondo culturale intellettuale (è esattamente così, chi lo nega non ha capito molto) creando un altro tipo di problema, più intellettuale forse, ma estremamente serio: negli anni questo atteggiamento di cullare i desideri della bolla, assecondandone le paranoie spicciole, ha contribuito ad abbassare il livello della letteratura italiana contemporanea che è ormai senza appello incapace di essere autentica e non salottiera e quindi totalmente relegata a un ruolo marginale nell’ambito delle grandi letterature europee. Manca, nella bolla, il respiro ampio, il coraggio di vedere al di là del proprio quartiere letterario, manca il coraggio. È invece pieno di autocommiserazione, di chi ci racconta le sue scopatine extraconiugali, le sue sortite nelle chat di gruppo delle classi dei figli, il suo postcolonialismo quando si trova a dover insegnare in una classe di periferia… che noia. Ma la bolla scoppierà, da capire quando, ma scoppierà e dovremmo soltanto augurarci che succeda presto.
Una parentesi. Per spiegare come funziona il processo distributivo in Italia, chiedo ancora al lettore uno sforzo tennistico. Immaginiamo un incontro di singolare; le giocatrici sono in campo e scambiano, tirano e segnano i loro vincenti. Rappresentano, nel nostro schema assurdo, una la categoria dei librai, l’altra quella degli editori. Se le danno di santa ragione, è un match di quelli epici, c’è in palio non la semplice vittoria, ma la sopravvivenza. Arbitra la distribuzione, che dall’alto del seggiolone si gode la temperatura mite, è imparziale e indifferente e segue le palle, che poi sono i libri, e pensa: «che vadano pure dove vogliono, di qua, di là, basta che si muovano così io li distribuisco e guadagno». Ogni tanto, quando intende che le giocatrici provano a parlarsi per darsi delle regole autonome, fischietto e minacce di fermare il gioco. Ad organizzare il torneo, prestigioso si intende, la promozione. Si occupa di far sembrare quel torneo il migliore della stagione per vendere i biglietti e una volta venduti, ecco lì che si può già pensare al prossimo anno, tanto poi che le partite siano avvincenti o noiose a qualcuno interessa qualcosa? Assolutamente no, i biglietti sono venduti. I biglietti qui sono i libri, per la promozione. Quindi, chi è che resta col fiammifero in mano? Editori e librai, che si sfiancano con maratone logoranti di nadaliana memoria, come se la rete non esistesse e la sola intenzione di eseguirvi una discesa, per chiudere un punto rapidamente, fosse quasi scortese.
Quindi? Che fare? Come interrompere questo logorio? Esiste una nuova generazione di editori e librai giovani nello spirito (dell’età ci facciamo poco) che stanno cominciando a guardarsi negli occhi e a chiedersi come fare, come aiutarsi, come superare certe logiche appartenenti a mondi oggi inesistenti, come sfruttare le nuove possibilità tecniche, in primis della logistica, come organizzarsi i tornei da soli, con le proprie regole, rendendo possibile di fatto la possibilità di guadagnare una percentuale maggiore sulla singola copia rendendo plausibile la possibilità di abbassare il prezzo di copertina per il lettore. Come, in poche parole, ripensare o evitare chi oggi non rappresenta più un intermediario credibile ed economicamente sostenibile capace soltanto di sfilacciare i rapporti diretti tra editori e librai che sono necessari e oggi più concreti rispetto a qualche anno fa. Certo, mi si farà notare che questo genere di pensiero è attuabile soltanto per strutture piccole, forse in qualche caso medie, ma il discorso non è importante, non è significativo parlare di chi rientra in questa modalità di editoria, è importante invece dimostrare che un’alternativa è possibile e bisogna opporla con ogni forza a chi oggi, per augurare un buon vento a un nuovo editore, rimarca noiosamente che il momento è proprio un cattivo momento.
Insomma, a chi vuole ancora oggi parlare di risultati, di fatturati da alzare, di promozioni e distribuzioni centrali, di flussi governati dalle intelligenze artificiali, di magazzini automatizzati come quelli di Amazon, di marketing aggressivo, sponsorizzate che conoscono l’orario a cui prendiamo il caffè, rispondiamo che il padel sarà per loro un ottimo passatempo, facile da giocare, tecnicamente inesistente, stilisticamente orribile. Per chi invece è interessato a costruire il futuro, si consigliano dritti e volée, partite lunghissime, serve and volley rapidi ed efficaci.
«L’egualitarismo delle democrazie liberali non ha soppresso i ricchi,
ma solo i ricchi decenti»
Nicolás Gómez Dávila, Escolios
Già...
Non durerà, aggiungo.
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