#24| La rivoluzione non si fa con i dottorati
A proposito del wokismo | La rivoluzione culturale comincia a Roma, nei bassifondi | Mario Perniola, situazionista | Miseria dell'accademismo
La legittimazione è ciò che trasforma le eversioni in norma, le rivolte in rivoluzioni, le rivendicazioni sindacali in piani quinquennali. L’accademia è l’industria culturale che sforna brevetti di legittimità. È la morte del pensiero. È compito di ogni vero pensatore resistere alle sue lusinghe e tenersene il più alla larga possibile.
Una pessima strategia, per questo, è stata quella adottata dal wokismo. Senza entrare nel merito della questione - perché qui non giudicheremo la consistenza delle pretese woke, la legittimità del linguaggio inclusivo, la concretezza delle sofferenze di chi vive la desinenza di un articolo come uno stigma infame e soffocante - l’errore del wokismo è stato tattico. La strada perseguita è stata fin da subito quella della legittimazione dall’alto. Dopo uno svogliato passaggio attraverso la tappa obbligata dei centri sociali, è arrivata troppo presto la valanga di appelli alle accademie ed ai governi, e troppo presto è stata accolta.
Grazie a questa scelta, la cultura woke vincerà. Anzi, ha già vinto. Sono state già convinte le persone giuste. E proprio per questo scivolerà silenziosamente tra le maglie della storia. A chi interesserà, infatti, nel futuro prossimo andare a ripescare tutti gli asterischi e le ‘ɘ’ prodotte a migliaia ed esposte nelle bacheche delle più prestigiose università? Agli occhi delle prossime generazioni avranno la stessa carica eversiva che ha per noi, oggi, un trattato di 40 anni fa di qualche capopartito della DC sulla corruzione dei costumi delle giovani generazioni.
A chi verrà mai in mente di romanticizzare la storiografia del wokismo e consegnarla all’eternità della storia controculturale, se da quando è nata ha trovato quasi subito rifugio nelle accademie e nelle università? Quale movimento storico e culturale ha mai avuto il plauso immediato dei centri di potere culturale? Metà dei movimenti artistici della storia prendono il loro stesso nome da un critico che ha cercato di stroncarli sul nascere, e acquistano vigore e slancio in proporzione all’ostilità delle istituzioni e delle scuole affermate. Tutto ciò che è realmente nuovo e rivoluzionario non può che nascere dalle ceneri di quel che lo precede.
Chi vorrà mai, nel futuro, mettersi i propri figli sulle ginocchia e raccontargli, romanticizzandoli, di questi anni di piombo del linguaggio? Alle assemblee inclusive o sui banchi dei corsi di gender studies non si respira affatto libertà, dialogo, apertura. Chiunque vi sia stato può testimoniarlo. Le orecchie dei presenti sono tutte accordate all’unisono e la delazione è raccontata come coraggio o sensibilità. Ogni deviazione è severamente criticata, fa perdere punti militanza o mette a rischio promozioni. A colpi di isteriche rivendicazioni vendicative e shitstorm, si è ottenuto solo che, dove impera il linguaggio inclusivo, l’aria, prevedibilmente, ha iniziato a puzzare di merda.
Certo, si potrebbe argomentare che viviamo oggi in un periodo di flessione, di inversione di tendenza. È la piccola controriforma delle destre oggi al potere, abbiamo una donna a capo del governo che si fregia di titoli maschili in piagniucolosa ostilità al wokismo e alle sue storture. Ma è una storia che abbiamo già visto: il progressismo, tarato sulla scorza fermamente individualista della nostra cultura, è inarrestabile. È solo questione di tempo. Tratteremo nel giro di una generazione il linguaggio identitario e il proibizionismo delle droghe, capisaldi di una destra naufragata nella modernità, come oggi trattiamo l’illegalità del divorzio o il suffragio maschile. E sarà in larga misura una conquista.
Ma non ci ricorderemo della “contro-”cultura woke. Perché non vorremo farlo. Tireremo al massimo un sospiro di sollievo per avere azzeccato abbastanza pronomi da non esserci compromessi la carriera. Finiremo invece per ricordarci di quei pochi luoghi in cui si poteva parlare liberamente, e che tanto meno sarà intollerante il nazismo woke tanto meno tenderanno ad assomigliare agli studi radiofonici de La Zanzara o ai deliri sgrammaticati di qualche funzionario frustrato.
Il fatto che Geminga sia collana abscondita, segreta, occulta, ci consente un’ampia libertà di manovra nella scelta dei titoli. Ci permette di eludere le assurde regole del sistema editoriale sui diritti, di bypassare pratiche burocratiche insensate, pasticci giuridici inutili, e di riportare alla luce alcuni autori blindati dalle grandi case editrici, che spesso ne custodiscono il monopolio senza pubblicare niente. Geminga è collana dalla vocazione piratesca, e con il prossimo titolo, il terzo, stiamo per trafugare un bel bottino.
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La “cultura”, questo significante vuoto, concetto pubblicitario buono per vendere biglietti dei festival e corsi di scrittura creativa, è il mezzo principale di diffusione del sapere come dispositivo di controllo. Meglio barbari che semicolti, meglio l’analfabetismo funzionale che l’alfabetismo disfunzionale. Dobbiamo delegittimare questo sistema, le sue centrali di promozione e i suoi intellettuali, «commessi del gruppo dominante» come scrive Tonino Gramsci. Disunisciti con noi.
Al 234 di Via Cola di Rienzo, alle 19.30, troverete l’uomo barbuto. Lui vi darà le indicazioni. Ma alle 19.45 non ci sarà più, e le porte del sottosuolo si chiuderanno.
Mario Perniola
Regola il tuo passo su quello delle tempeste
Novità di novembre
Con un piede dentro e uno fuori dal circuito culturale e dalle istituzioni universitarie, Mario Perniola è stato un illustre professore universitario di filosofia (allievo prediletto di Luigi Pareyson assieme a Umberto Eco, Gianni Vattimo, e Nicola Abbagnano) e al tempo stesso un critico feroce di tutto ciò che l’università rappresenta. L’università, l’accademia, così come oggi le abbiamo ereditate, sono il fiore all’occhiello di un pensiero borghese stanco, accartocciato su se stesso, ossessionato dal desiderio di tramandare una cultura vuota, lontana dalla vita, anti-pratica. I suoi prodotti – i paper, le tesi, le ricerche – vengono filtrati e disinnescati dalle norme redazionali, dalla peer review, dalle clausole dei bandi, dal nepotismo accademico; quel che ne esce fuori sono idee spente, pensieri troppo formalizzati per condurre all’azione. Perniola ha speso la sua vita e il suo pensiero altrove, nei libri, tra le pagine delle riviste da lui fondate, nei movimenti artistici – Situazionismo innanzitutto – nei luoghi affrancati da un cultura accademica e borghese che vuole fare del pensiero l’ennesimo dispositivo di potere e controllo.
La censura, l’intolleranza teorica, le persecuzioni «ideologiche» sono avanzi feudali che la borghesia ha ereditato dall’ancien régime: in piena età borghese a nessuno più importa di cosa il singolo scriva. Massima tolleranza vuol dire massima indifferenza e massima sicurezza.
La rivoluzione o è totale o non è. Come un lampo nel cielo deve irradiare di luce tutto ciò che la circonda per poi dissolversi nel nulla, passato il suo tempo. Prima che il gioco della lotta diventi procedura burocratica, il movimento apparato e il rivoluzionario un funzionario. È questo il monito lasciato da Mario Perniola, che ritroviamo nei suoi saggi più incendiari – smarriti dal tempo e qui pazientemente riuniti dal suo ultimo allievo, Enea Bianchi. Muovendosi con disinvoltura tra l’urbanistica e la teoria dei media, l’estetica e la politica, Perniola vuole infrangere la campana di vetro della noia e dell’apatia sotto cui prolificano la cultura borghese e le istituzioni-simbolo della sua controrivoluzione permanente: le accademie, i laboratori, i musei, ma anche gli stessi libri, sepolcri del conformismo, dove assistiamo alla parcellizzazione della cultura, alla frammentazione delle arti, al divieto alla vita. Compito del pensatore – indistinguibile dall’artista – è quello di padroneggiare l’arte del détournement: stravolgere le abitudini, dissacrare i valori dominanti, ricavare nuove pietre d’angolo dalle macerie delle architetture che abbatte. Soprattutto, introdurre l’idea della morte: quella che la cultura borghese, nel suo capriccio enciclopedico e nell’ossessione per l’immortalità dell’Opera a scapito della vita, vorrebbe in ogni modo rimuovere.
Questi saggi giovanili, finora introvabili, garantiranno a Perniola il plauso e la stima di Guy Debord, nonché l’ingresso a pieno titolo nel movimento situazionista.
Nuova rubrica
Insospettabili
scrittori e scrittrici che assomigliano a persone, a dittatori o ad altre cose
Hitler per non essere stato ammesso all’Accademia di Belle Arti ha invaso la Polonia. Grazie al cielo Mario Desiati ha vinto il Premio Strega.
Miseria dell’accademismo
un caso studio
Conviene tornare sul lunare dibattito in merito al titolo di studio di Dario Fabbri. Nella burocratizzata concezione della cultura vigente nel nostro paese, un intellettuale dovrebbe avere concluso il convenzionale percorso di studio. Quasi la profondità umanistica si apprendesse in Accademia, tra le secche del metodo scientifico, nei bassifondi della peer review, quasi il pensiero si formasse spontaneo nei programmi del Miur.
Fabbri ha più volte raccontato d’aver rinnegato fin da subito l’accademia. Non ha mai neppure preso in considerazione la questione “laurea”, limitandosi a ignorare l’argomento, giudicandolo estraneo al tipo di conoscenza che intendeva possedere. Del resto, non esiste in Italia o altrove una facoltà di geopolitica, tantomeno di geopolitica umana, filone da lui creato, incrocio tra storia, antropologia, strategia e geografia. Ci saremmo stupiti avesse proseguito il percorso in scienze politiche, non del contrario.
Come Fabbri ha spiegato e che è facilmente riscontrabile dalla cronologia delle modifiche, per due volte tra maggio e i primi di agosto 2023 ha tolto la menzione della laurea in scienze politiche dalla pagina di wikipedia che altri avevano inserito, basandosi su articoli nei quali non era neppure stato interpellato. Menzione reinserita in automatico dagli amministratori della pagina.
Più importante, come ha raccontato nell’intervista a Dissipatio, ha lasciato la facoltà di scienze politiche perché intendeva concentrarsi sulla struttura delle cose, anziché sulla sovrastruttura, categoria unica della politologia, chiamata in tale facoltà a formare burocrati (diplomatici, funzionari, assistenti), non certo pensatori. Sebbene i politologi spesso si fregino unilateralmente anche del titolo di pensatori.
Come capitato molte volte nella storia agli studenti più capaci, a 23 anni ha cominciato a firmare analisi di geopolitica per la versione italiana dell’International Herald Tribune, lasciando definitivamente il percorso politologico. E cominciando ad approfondire da sé l’approccio alla geopolitica. Specie seguendo il principale analista americano, George Friedman (memorabile una loro chiacchierata sul ruolo di Hegel nella visione geopolitica, rintracciabile sul sito di Limes). Seguendo un suo personale studio, negli anni con i suoi scritti e conferenze ha cambiato in maniera radicale lo sguardo italiano sulle relazioni internazionali, provocando il superamento della politologia, sostituita dalla “sua” geopolitica, distante da quella deterministica degli esordi. Nessuno può negare che da quando è apparso al grande pubblico, alla fine degli anni Dieci, il discorso sugli “esteri” nel nostro paese è stato stravolto.
Fabbri si concentra soltanto sui popoli, al di là dei leader, dei partiti, e sulla storia, ritenendo rilevante il pensiero esclusivamente in ambito storico, rifiutando qualsiasi ricetta o teoria perenne. Peraltro, il suo approccio alla storia pone al centro i popoli, non re o condottieri, come capita invece di studiare su tutti i manuali scolastici o universitari. Intuizione che è alla base delle due principali scuole extrauniversitarie di geopolitica di questo paese, entrambe fondate proprio da Fabbri.
Troppo per una parte dell’Accademia che ha cominciato ad attaccarlo, accusandolo di mancare di quei “titoli” che ovviamente elargisce la stessa Accademia, in un risibile cortocircuito.
Come se Gabriele D’annunzio, Benedetto Croce, Steve Jobs o Bill Gates non fossero luminari perché lasciarono l’università senza completarla per dedicarsi, davvero, alla conoscenza. Peraltro proprio Microsoft ha invitato Fabbri, unico italiano, a realizzare seminari su strategia e tattica al quartier generale americano. Così la diplomazia tedesca gli ha chiesto di incontrare privatamente il presidente della Repubblica Federale Tedesca. Peraltro, l’autodidatta, se rivoluzionario, dovrebbe riscuotere maggiore ammirazione di chi si è formato in modo convenzionale. Perché se nei sei secoli il pensiero fosse stato costretto nella sola Accademia, non avremmo avuto evoluzione.
La sua vicenda ricorda quella del grande architetto Carlo Scarpa, tra i più importanti del XX secolo, premio della presidenza della Repubblica italiana per l’architettura, insignito in Inghilterra della Royal Designers for Industry. Enfant prodige, Scarpa dopo il diploma ricevette assegnazioni di importanti lavori, ai quali si dedicò con genio. Senza laurearsi.
Finché nel 1956 e nel 1960 ricevette due denunce per esercizio abusivo della professione. Onta sull’accademia, tuttora non superata. La medesima riguardante Fabbri. Specie in una facoltà come scienze politiche, dedicata non allo studio dei popoli, della loro storia e traiettoria, ma alla sola produzione secondaria: ideologie, diritto, istituzioni, ricette economiche. In totale assenza della sostanza che muove le potenze. Quella che Fabbri persegue e che dovrebbe costituire la nascita della facoltà di geopolitica umana, come ama ripetere. Perché che l’accademia si mostri mediamente inutile non è certo una novità, tuttavia stavolta il dibattito culturale nel nostro paese rischia di perdere una grande occasione.
«Cultura è tutto ciò che non può insegnare l’università»
Nicolás Gómez Dávila,